L’essere umano che è dentro il campione

2 Luglio 2018
L’essere umano che è dentro il campione

Quali ombre si nascondono nell’animo di un giocatore?

Quando pensiamo ad un campione calcistico le prime cose che ci vengono in mente sono: fama, soldi, lusso.

Il pensiero comune non va mai oltre.

C’è, però, una parte invisibile che nessuno vuol vedere, quella che parla dell’essere umano che è dentro il campione e che troppo spesso si tende a dimenticare.

Cosa si cela nell’animo di un campione?

“I campioni e i professionisti dello sport”, spiega Alberto Cei (psicologo e consulente per l’alta prestazione), sono riusciti a trasformare la loro passione di bambini, il piacere di giocare, nel loro lavoro.

Ora sono pagati per fare al meglio ciò che prima facevano esclusivamente per piacere personale.

Se è vero che per vincere non bisogna pensare a vincere, bisogna di conseguenza abbandonare questa aspettativa e concentrarsi ogni volta sul fornire la migliore prestazione di cui si è capaci.

In questo difficile lavoro mentale e che prova solo chi ricerca l’eccellenza ci si può perdere, perché l’atleta s’identifica solo con le proprie prestazioni e non anche con le altre situazioni della sua vita (famiglia, ambiente sociale, altri interessi).

Questo atteggiamento conduce ad attribuire un valore quasi assoluto ad ogni gara in cui mette in gioco se stesso secondo un principio tutto – o – niente, bravo – incapace, campione – fallito.

Quando si forma questa convinzione sarebbe necessario avere al proprio fianco persone con cui condividere queste paure, persone che ascoltano senza giudicare e con cui confrontarsi per trovare la soluzione per uscire da questo stato psicologico, pena lo sviluppo di una condizione psicopatologica che richiederà l’intervento di uno specialista”.

Nel 2015 il FifPro, (il sindacato mondiale dei calciatori), diffuse i risultati di un’indagine condotta su 826 giocatori di 11 Paesi: i risultati indicarono che il 38% soffre di problemi di salute mentale.

Gli studi effettuati su questa tematica spiegano esattamente questo, ovvero quanto problematiche mentali siano diffuse nello sport ad alto livello, quanto siano mascherate o non percepite come mali e quanto, di conseguenza, sia più complicato affrontarle.

L’argomento è stato per anni un tabù inscalfibile.

Finalmente adesso molti campioni ne parlano.

Quanto è difficile liberarsi di un macigno così grande?

Uno dei primi calciatori a parlare delle sue difficoltà psicologiche fu il tedesco Sebastian Deisler, centrocampista del Bayern Monaco e della Germania, potenziale fenomeno, che fu costretto a smettere a soli 27 anni, (oggi ne ha appena 38), a causa di una forma di depressione insorta in seguito ai continui infortuni.

Ma il suo non è l’unico caso.

Il portiere tedesco Robert Enke, che avrebbe potuto essere una stella ai mondiali sudafricani del 2010, si buttò sotto un treno a 32 anni.

Soffriva di depressione da sei anni, il successo nel suo lavoro lo aiutava, poi non riuscì a prendere più la palla e decise di mettere fine ad un dolore troppo grande da sostenere.

Un altro caso dal tragico epilogo in Germania è stato quello del difensore del St. Pauli Andreas Biermann, suicidatosi nel 2014, mentre era in cura.

Era il quarto tentativo di suicidio.

Restando a casa nostra, in Italia, possiamo ricordare due casi che riguardano la Juventus: prima Buffon che ha dichiarato di aver vissuto mesi molto difficili nel 2004, nei quali ha raccontato di aver perso l’interesse per qualsiasi cosa.

Così dichiarava: “non ero soddisfatto della mia vita e del calcio, cioè del mio lavoro.

Mi tremavano le gambe all’improvviso”, “era come se la mia testa non fosse mia, ma di qualcun altro, come se fossi continuamente altrove”, “ricordo che mi dicevo: ma cosa me ne frega di essere Buffon? Perché poi alla gente, ai tifosi, non importa di come stai. Vieni visto come il calciatore, l’idolo, nessuno ti dice ehi, come stai?”.

Un altro ricordo impresso nella memoria di tutti è il tentativo di suicidio di Gianluca Pessotto nell’estate del 2006, che fortunatamente non portò alla morte dell’ex juventino.

Il calciatore si gettò da una finestra della sede della Juventus di via Ferraris a Torino.

In un intervista del 2007 al giornalista che gli chiede: “Come ti senti adesso?” risponde: “Gli alieni stavano per divorarmi, invece sono ancora qui.

Però diverso, cambiato.

Mi curo, sono in analisi, lavoro su me stesso e non me ne vergogno”.

Altro evento, questa volta dal triste epilogo è quello, indimenticabile, dell’ex capitano della Roma Agostino di Bartolomei, che si sparò al petto e lasciò scritto: “Mi sento chiuso in un buco”.

Il caso più recente è, invece, quello del calciatore dell’Everton, Aaron Lennon, ex-nazionale inglese, sorpreso in stato confusionale dalla polizia sul ciglio di una strada poco fuori Manchester.

La paura di affrontare un disagio

I casi sopra riportati sono solo alcuni anelli di una triste catena di sportivi professionisti che manifestano problematiche psicologiche rilevanti.

Nonostante le morti e i casi numerosi, sono ancora troppo pochi coloro che trovano il coraggio di parlarne, di ammettere le proprie difficoltà e le normali insicurezze.

Mostrarsi deboli in un mondo come quello del calcio, caratterizzato da prove di forza, da muscoli da mostrare, da performance da mantenere e da identità create su una esultanza, può comportare un forte malessere difficile da tollerare e da gestire.

Quale squadra accetterebbe di credere ancora su un calciatore che ammette di avere problemi di stress o problematiche mentali?

Le malattie mentali non devono essere un tabù e se ne deve parlare.

È normale che un calciatore soffra di stress, a causa degli allenamenti, delle partite, delle aspettative degli altri sulle proprie prestazioni.

I fattori di stress aumentano con il progredire della qualità delle prestazioni: l’essere parte di un’élite, gli infortuni, il sovrallenamento, il collocamento della propria identità di persona in rapporto all’identità pubblica del protagonista, il bisogno di mantenersi ad alto livello anche per motivi economici, le richieste tecniche di ogni singolo sport da soddisfare, il terrore del fallimento e lo spettro della conclusione dell’attività.

È giusto porre l’accento su quanto la salute mentale sia importante, al pari della forma fisica e di una buona capacità tecnica.

I problemi possono essere prevenuti, gestiti e curati, se adeguatamente compresi e accettati.

Fortunatamente, anche se ancora troppo lentamente, qualcosa inizia a muoversi in questa direzione e oggi lo psicologo è visto in molte realtà come parte dello staff, preparatore atletico della mente.

Arrigo Sacchi al mondiale ‘94 fu pioniere nel calcio italiano affiancando ai giocatori degli psicologi per comprendere chi fosse più pronto mentalmente ad affrontare la gara.

L’introduzione dello psicologo in supporto agli atleti risulta, dunque, una figura molto importante; testimonianze di ciò derivano anche da atleti professionisti di altre discipline sportive, come Tania Cagnotto, campionessa italiana di tuffi.

Affinché l’introduzione dello psicologo diventi fondamentale nel mondo sportivo è di centrale importanza la figura dell’allenatore, pilastro e punto di riferimento per i giocatori.

Ci aspettiamo, dunque, che sempre più allenatori siano in grado di abbandonare tabù e pregiudizi e diventare portavoce di uno sport che non guarda solo al raggiungimento di obiettivi economici e professionali, ma anche al benessere psicologico dell’essere umano che è dentro il campione.

Ciao,

Dottoressa Sabrina Cantarano.

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